Berlino, 1927
I libri di Max Mohr sono perle rare inabissatesi nelle profondità
oceaniche ai tempi dell’ultima guerra mondiale.
Se rispetto ad alcuni lavori letterari caduti nel dimenticatoio,
ricercando le ragioni sottostanti alla loro scomparsa, ci si rende
subito intuitivamente conto del perché ciò sia potuto succedere, così
non è per il romanzo in questione, che costituisce un’inconsueta deroga a
questa impietosa norma.
Per Venus in den Fischen è possibile nondimeno risalire ad una causa
oggettiva: il furore nazista nella distruzione delle opere d’ingegno
considerate espressione “d’arte degenerata“ e con massimo godimento
qualora queste fossero opera di scrittori d’origine ebrea. Confiscate,
bruciate, sparite. L’autore lontano, in esilio. Su di un tale sostrato a
volte si innestano anche motivi casuali. E poi negli abissi non si va
granché volentieri.
La vicenda, accennatamente sviscerata, i protagonisti, leggermente vivisezionati
La vicenda, accennatamente sviscerata, i protagonisti, leggermente vivisezionati Berlino. Un medico, il dottor Quaß e una dottoressa in medicina, non abilitata, la signorina Otterloo, entrambi con rapporti di lavoro a dir poco traballanti, si incontrano in occasione di un parto in una ricca villa dove loro malgrado per un equivoco prestano ambedue assistenza alla partoriente – non senza pestarsi i piedi – e fanno la conoscenza di uno strano personaggio, il dottor Abba. Assieme finiranno per aprire alle porte della città una così detta “clinica medico-astrologica“, fondata allo scopo di circonvenire, sebbene molto elegantemente, schiere di nuovi ricchi e tutta una svariata varietà di appartenenti al bel mondo, che come stregati dall’ allure del dottor Abba a frotte aderiranno entusiasti all’impresa. Nell’economia del romanzo questi costituiranno una sorta di galleria di tipi umani a metà tra impietoso falò delle vanità e pittura di genere borghese, ritrattistica espressionistica e parodia della Nuova oggettività, raffigurati con uno stile sempre in bilico tra caricatura e impressioni di psicologia del profondo.
La trama si snoda attorno alle scelte disperate dei tre, a turno dettate
da opportunismo, da uno strano idealismo screziato di spregiudicato
pragmatismo o ancora guidate da rigurgiti di anticonformismo, riottosità
e ribellione. Una frode ben architettata e riuscita, i cui profitti
illeciti verranno spartiti dai tre personaggi di cui prima, capitanati
dall’ipnotico Abba. Abbiamo quindi:
• un surreale quanto vetusto
astrologo afroamericano, guru acclamato, ribelle tout court di
poeticissima umanità dalle corde molto black exploitation ante litteram,
di indole mansueta ma ferina d’esasperazione, ad ogni modo indomabile,
troppo autentico, radicale e verace per la corrotta sensibilità europea
• una quasi-dottoressa diseredata dal padre, famoso psichiatra,
improvvisamente trovatasi nullatenente ma pronta a tutto per salvare la
sua intatta dignità e intatti i suoi vizi e virtù di figlia della classe
abbiente
• un medico ricercatore, d’ascendenza rustica e
valligiana, modi bruschi se non villani, fede nella sua missione di
redenzione del proletariato dalle sue afflizioni corporali, di veemente
incorruttibilità e ardente impulsività.
A riguardo di Abba pian piano si apprende che oltre ad essere di colore
ed americano, è anche antidiluviano, figlio di un cantante jazz
affrancatosi a suo tempo dalla schiavitù, ricco per nascita e grazie a
spericolate quanto avventate manovre carrieristiche, dall’ego
strabordante, apostata, introdotto all’Alta Matematica, piuttosto
astronomo anziché no, indubbiamente astrologo, autodistruttivamente
spregiudicato, di chiara marca malinconica con guizzi oggidì
etichettabili come bipolari, inseguito da complessi sia atavici sia
acquisiti, amante impenitente dell’Europa nonché suo efferato critico
senza tregua né esclusione di colpi.
In questo romanzo dai toni
tragicomici Abba troverà nei dottorini dei suoi fedelissimi alleati,
capacissimi di metterlo in discussione solo riguardo a questioni in cui
verrà impietosamente giudicato sulla base di quasi inconsapevoli bias
chiaramente riferibili alle teorie della razza – qui la loro distante ed
imperturbabile crudeltà, qui la critica di Mohr ai rapporti razziali
vigenti -, dove la struttura comportamentale è freddamente sezionata
ogniqualvolta la furia lirica di Abba si scatena in maniere poco consone
all’”educazione europea”, exploit che Abba paga
tutti e con gli interessi e per cui viene ridotto oggetto di inclementi
considerazioni impersonali, tutte alle sue spalle e tutte in linea con
la parte più oscura dello Zeitgeist in cui le vicende sono ambientate;
altrimenti accettato in quanto genio indiscusso, dunque incompreso.
L’analisi sociologica della trama, + l’universo coi suoi i rapporti planetari
Una tirocinante di medicina senza
abilitazione, bionda di settentrionale orgoglio puritano, diseredata,
pronta a tutto ma castamente rinunciataria nella sua vita amorosa,
lanciata in una disperata corsa per l’autosopravvivenza finanziaria e un
risoluto medico tirolese tutto d’un pezzo, votato alle cause
umanitarie, promettente oncologo nascostamente teso a trovare una cura
alternativa per il cancro basata sulla teoria delle segnature di
impianto paracelsiano, dai tratti e modi bruschi quando non sgarbati o
troppo focosi, saranno i compari d’avventura di Abba, che assieme a
questo nero negromante si lanceranno nella spericolata apertura di un
istituto di “medicina astrologica“ nella pianura brandeburgica alle
porte di Berlino, concepito al fine di estorcere all’alta società di
parvenu quanto più denaro possibile, con l’ingannevole promessa di
trattamenti in sintonia con il proprio tema natale e in sinergia con
pianeti e stelle. Ed ecco quindi sfilare davanti al lettore tutta una
serie di personaggi disparatissimi, i cui tratti caratteriali, ognuno in
un modo o nell’altro molto peculiari e cifra di un ambiente sociale, un
sentire, di una moda, una mania, tutti ugualmente di natura normativa,
vengono descritti con arguzia affatto politicamente corretta, messi a
nudo con eleganza tramite un raffinato occhio di bue che con oculato
metodo induttivo e senza troppe remore prima li inquadra e poi li
riprecipita nell’oscurità, tra lapidaria bravura descrittiva del tipo
psicologico antesignana di elaborazioni psicanalitiche e il suo
corrispettivo in termini sociologici, allegoricamente alludendo
all’inerzia dei problemi sociali inerenti la Repubblica di Weimar e alla
sua inesperta quindi fragile democrazia parlamentare.
Questo è il
chiaro orizzonte temporale di riferimento di quest’opera pubblicata alla
fine degli anni venti, parodia di tutto il bailamme attorno al
movimento sociale della Lebensreform e alle sue coercizioni in materia
di igiene alimentare e
corporale (alimentazione crudista, cibi integrali, vegetarianismo,
astensione da alcol, tabacco, avversione per le novità della
farmacologiche e della chimica, nudismo, teorie della luce/sole/aria),
medicina (spagirica, metodo Kneipp, cure alternative, etc.) e che suo
malgrado costituirà dell’ottimo humus per derive totalitaristiche basate
sui disgraziati precetti dell’ideologia “sangue e suolo”.
Quasi
come se all’autore fosse stata data in dono una strana evanescente e
delicata chiaroveggenza, ci si muove tra la satira costante, sferzante e
buffa, che il lettore di oggi, che si aiuta col senno di poi, riferisce
alle atmosfere di un presagio seppur velato, quel riferimento al
Nazionalsocialismo degli anni a venire, presagio non concepito come
possibile, ma forse solo perché quello che accadde poi rimane –
nonostante gli ottimi e riusciti tentativi di spiegazione – al di là di
quello che la coscienza è capace di elaborare. Andando in esilio prima
della presa del potere da parte dei nazisti, l’autore ci fa rimanere
sospesi nel dubbio che comunque avesse già immaginato simili orridi. Si
va verso il finale, accompagnati da un senso di fatalità, di cui gli
avvenimenti stessi sembravano invece poterci liberare.
Un happy end a
metà, dove il genio nero, macchiatosi di assassinio, sarà costretto ad
abbandonare il suolo dell’amata Europa, esiliato e psichicamente
annichilito, colpevole di aver ceduto alle sue paure, di certo legittime
perché legate alle odiose questioni della razza: gli si chiedeva in
fondo solo di sdrammmatizzare un po’ in cambio di una duratura felicità
di facciata. Tutta roba inconcepibile per uno che è stato addirittura un
apostata e sfida la società benpensante con metodi almeno discutibili
al limite della legalità.
Il ciarlatano che “ha smesso di crederci”
per eccesso di elucubrazioni mentali verrà punito, troppe manfrine
morali, mentre quella che nel frattempo è diventata una coppia-azienda
tesa all’accumulo di soldi con qualsiasi mezzo, diventerà una coppia
affettuosa, premiata per il suo sangue freddo, la perseveranza in certe
condotte sotto l’egida della doppia morale, rispecchiando il modello
delle relazioni tra i sessi tipici di un’epoca agitato-esagitata,
smaniosa, isterica.
Le tematiche
Venere in Pesci si sviluppa
attorno a tematiche ricorrenti nella vita del suo autore e ricorrenti
nelle riflessioni tipiche della sua epoca: il conflitto tra natura e
tecnica, tra morale e denaro – tra la Grande e la Piccola Ragione -, tra
città e campagna, tra metropoli e provincia, senza possibilità di
risolvere tali tensioni tanto connaturate alla sensibilità moderna.
Quindi niente vero e proprio ritorno alla natura, né panegirici in
favore dell’idillio bucolico. La via d’uscita, unica e degnissima è
quella della parodia, della satira, dell’umorismo, del nonsense ,
dell’invettiva sociale elegantemente scoccata, tra il serio e il faceto,
ma sempre
raffinata, sorprendentemente leggera quanto efficace, che schernisce
atteggiamenti non registrati dai più come bislacchi – al massimo
strambi, comunque ben tollerati da chi si assoggetta volentieri ai
capricci della moda -, ma che a un più attento scrutinio della ragione
non possono che apparire nella loro bizzarria demenziale, maniacali,
scurrili, potenzialmente calamitosi. Senza farne troppo un dramma però,
le cose vanno secondo il loro destino, solo le stelle sanno, per chi si
lascia imbambolare da tali amenità.
Di estrema attualità sono anche poi le provocazioni riflesse nelle
relazioni tra i personaggi, in primis quelle riguardanti i rapporti
razziali, con Abba cifra di tutta una stratificazione di teorie della
razza, che ai tempi di Mohr, se anche trova sua massima espressione in
Europa, ha comunque i suoi pilastri ben piantati anche in terra
americana, nero su bianco, quasi fosse una legge naturale. Come anche il
tema dell’emancipazione femminile, ancora indecisa, ancora parzialmente
legata a vecchi attribuzioni di ruolo e per questo motivo alla ricerca
di un riscatto dai toni indiscutibilmente esasperati.
Vi sono poi argomenti ancora peculiarmente ascrivibili al Mohr “medico“:
il fenomeno della ciarlataneria in medicina, la folle gerarchia medica,
le pratiche alternative. Quest’ultime, nonostante fossero spesso punto
di partenza per riflessioni ironicamente sagaci e frecciate scoccate
contro obnubilamenti generali dettati dalla frenesia salutistica del
momento, furono sempre oggetto di interesse della sua pratica medica e
rinvenibili in gran parte della sua opera e soprattutto nel romanzo in
questione.
Sarà proprio negli anni dell’emigrazione che la
competenza in materia di “medicina alternativa” verrà messa in risalto,
proprio a Shanghai, dove inizierà a praticare oltre che in veste di
medico per le affezioni nervose e mentali anche l’omeopatia, secondo la
grande tradizione tedesca di questa specialità.
Lo stile
In Venere in Pesci assistiamo
ad una parata di artifici retorici riconducibili al fenomeno delle
parodolie acustiche, spazianti per tutto il vasto registro
fenomenologico dell’invenzione onomatopeica e dell’omofonia. Una vera e
propria onomaturgia, un vero e proprio onomaturgo Max Mohr, sempre in
bilico tra slittamenti semantici e fonologici, parole d’autore e loro
storpiamento, parole ibride e
jargon .
Bisticci di parole ovunque disseminati a svelare tutta la
scurrilità e banalità di comportamenti sociali
altrimenti ritenuti impeccabili – anzi celebrati e glorificati perché
en vogue -, veri e propri preziosismi letterari il più delle volte
estemporanei, espressi con adorabile ma mai leziosa lievità,
deformazioni paronimiche satiriche ed altre amene figure etimologiche.
Attraverso questi espedienti, la narrazione – rimpinzata di freddure –
si fa algida, per scomporsi però subito dopo in un incalzarsi di
soliloqui che diventano sproloqui, dialoghi con botta e risposta che
battono il ferro appena al di sotto del suo punto di fusione, nervose
elucubrazioni mentali dei personaggi che sfociano di regola in impetuosi
moti d’animo, in un generale infuocarsi degli spiriti coinvolti nello
snervante gioco d’azzardo dietro la facciata di una presunta clinica
medico-astrologica e tutto quello che ne può comportare.
Le affinità letterarie e il teatro nel romanzo
Solo un altro romanzo, Die Freundschaft
von Ladiz , era stato a suo tempo tradotto in inglese – subito dopo
essere stato pubblicato a Monaco –, anzitutto quasi certamente perché in
uno dei protagonisti era mascherata la figura di D.H. Lawrence,
scrittore all’epoca ancora piuttosto controverso e decisamente
provocatorio, con cui Mohr aveva stretto un’importante amicizia, che
comporterà per Max assisterlo affettuosamente nei suoi ultimi anni di
tubercolotico. D. H. Lawrence, di cui Mohr sarà appunto fedele amico
nonché medico personale, criticherà ubbioso Venus in den Fischen,
incapace di apprezzare la pungente satira sociale espressa dai
personaggi, ritenuti essere mere “figure”, atte solo a mettere in moto
una qualche meccanica del dramma.
Questo si legge in una lettera
indirizzata a Mohr, senza altre grosse spiegazioni; in almeno altri due
momenti della loro corrispondenza si avverte di nuovo una certa invidia
sotterranea – le forme dell’invidia
sono infinite, ancor più se questa giunge inattesa – dello scrittore
inglese nei confronti del suo amico tedesco, malvolentieri ritenuto
collega e trattato alla stregua di figura letteraria minore. Lawrence,
in un’altra delle sue missive, avvalendosi dello stratagemma del
discorso indiretto, del tutto gratuitamente e non senza una punta di
velenoso sadismo riuscirà a dare a Mohr dell'”incolto”.
Ad ogni modo, che Mohr fosse anche un commediografo si riflette anche in
alcuni suoi stilemi, come ad esempio il ripetitivo utilizzo di verbi di
movimento e stato in luogo, ma anche di appellativi ed aggettivi che
sembrano quasi trasportare la funzione delle descrizioni ambientali del
copione teatrale o della sceneggiatura nella forma “romanzo”.
Oltre a contribuire alla continuazione della sua esistenza in quanto tale, la traduzione di
Venere in Pesci offre quindi un ulteriore punto di forza e possibile sviluppo: l’adattamento per la scena, teatrale o cinematografica.
Tale particolarità rende l’opera di Mohr accostabile a quella di un
altro scrittore di Großstadtromane
(: romanzi della grande città), suo contemporaneo, Erich Kästner. Anche
in Fabian – Geschichte eines Moralisten , del 1931 – successivo quindi
alla nostra Venere – è rinvenibile un particolare stile di scrittura in
cui è all’opera la tecnica filmica, con i suoi veloci “tagli“ e montaggi
ad arte, capaci di dare al romanzo una dinamicità da sceneggiatura: un
mezzo stilistico che regala al testo un certo immortale dinamismo,
appunto, ricreando quel particolare ritmo e l’eccezionale turbolenza
subito associati alla metropoli par exellence degli anni ’20 ossia
Berlino. Accomuna Kästner a Mohr anche la stampiglia nazionalsocialista
riservata alle loro opere, ritenute essere “contro lo spirito tedesco”.
Coevi di Venere in Pesci sono anche gli Appunti e i Racconti di
un giovane medico di Bulgakov, altro esempio di medico-scrittore che,
sempre per restare in tema di “romanzi aggettivati“ – il romanzo
astrologico di Mohr – scriverà a metà degli anni ’30 Romanzo teatrale
istigato da quella che lui avvertiva essere una sorta di
teatralizzazione della vita moscovita di quegli anni, nonché dalla
passione non corrisposta dell’autore per il Teatro e dove il teatro,
attraverso la prosa che a tratti simula il copione, da elemento
narrativo diventa elemento strutturale.